MAINETTI UGO
23037
TIRANO (SO) - Via Don Luigi. Albonico, 20
Pittore
autodidatta - Nato a Tartano (SO) il 5 maggio 1945, risiede e opera a Tirano.
Predilige la figura, usa olio su tela.
Recentemente
ha esposto a Parigi "Maison de l'Italie", maggio 2000; Castano Primo
(MI) "Villa Rusconi", luglio 2000; Jesolo Lido "Mercato d'arte
moderna contemporanea", luglio 2000; Rio di Pusteria (BZ), agosto 2000;
Sydney (Australia) "Galleria Bretti Beach", settembre 2000; Corbetta
(MI) "Sala delle Colonne", settembre 2000; Arte Padova, novembre 2000;
Dusseldorf (Germania) "Oberkasse Strabe 56", dicembre 2000; Morbegno
(SO) "Chiesa di S. Antonio", dicembre 2000; Udine "Expo Arte",
aprile 2001;Klagenfurt (Austria) "Berufsyereinigung Bildender Kunstler
Osterreichs", maggio 2001; Bari "Fiera del Levante", marzo 2000
e 2001; Sondrio (Valtellina) "Mostra Scarpatelli", luglio 2001; Turchia
"Museo archeologico di Efeso - Selcuk Izimir, settembre 2001; Milano
"Associazione Amici del Quadrato" dicembre 2001
ecc.
Quotazione
dei quadri di Ugo Mainetti: olio cm. 30x40 euro 10500,00, cm. 50x70 euro 23250,00,
cm. 130x200 euro 72500,00; carboncino cm. 50x60 euro 8000,00. Nel 2001 Mainetti
ha ottenuto a Milano il premio S. Ambrogio d'Oro, patrocinato dal Comune e dalla
Provincia di Milano.
"Forse
ci troviamo alle soglie di quella 'morte
dell'arte' che già Hegel aveva profetizzato, argomento poi ripreso da Giulio
Carlo Argan in tempi a noi più recenti. In realtà, se c'è qualcosa che sta agonizzando
in maniera apparentemente irreversibile, questa non sembra essere l'arte in
sé e per sé, ma piuttosto quella sua particolare manifestazione che viene chiamata
'avanguardia'.
C'è
stata, è vero, l'avanguardia storica, quella che ha combattuto la tradizione
dell'accademia, quella che ha inteso cambiare radicalmente il modo di concepire
l'arte attraverso una serie continua di nuove proposte. Tutto, in qualche modo,
ha funzionato fino a quando non si è inventato per il puro gusto di inventare,
come se il nuovo fosse per definizione sempre meglio di quello che già esisteva.
Oggi
che è stato inventato tutto e il contrario di tutto, all'avanguardia non è rimasto
che imitare ciò che aveva già fatto in passato mettendosi paradossalmente sullo
stesso piano di quell'accademia dalla
quale voleva distinguersi drasticamente. Oppure si cerca di 'drammatizzare'
l'arte, eliminando da essa la motivazione espressiva e confondendola sempre
più con la realtà vera e propria, attraverso l'impiego del ready-made o di mezzi riproduttivi come la fotografia, il cinema o
la televisione. Un'arte che sembra una 'non
arte', insomma, sostenuta in maniera esclusiva dal concetto, dalla teoria,
da una tesi di fondo senza la quale certo non si avrebbe alcuna giustificazione.
In
che modo l'arte può tornare a essere 'illusione'.
In tutti i modi, indubbiamente, ma sempre con un solo obiettivo: deve essere
un'esigenza, individuale o collettiva, qualcosa che venga sentita come necessaria.
Deve ristabilire un rapporto fisico ed emotivo con la vita, libero dalla freddezza
di eccessivi condizionamenti intellettuali.
C'è
stato un periodo dell'arte del Novecento in cui si è sforzati di creare un rapporto
di reciproca dipendenza fra arte e vita: il Primitivismo. Da Gauguin in poi,
il Primitivismo ha cercato di recuperare quell'espressività primordiale che
la civiltà moderna stava rinnegando come se fosse stata un retaggio del passato.
Dapprima gli artisti hanno cercato quest'espressività primordiale nelle tradizioni
di popoli lontani (i polinesiani, gli africani, gli etruschi, gli antichi ispanici)
o in quelle del nostro Medioevo: poi, con Jean Dubuffet, ci si è accorti che
esisteva anche un primitivismo 'interiore'
che si dimostrava perfettamente
moderno senza riferimenti a cose passate o esotiche. E' il primitivismo che
con Dubuffet è stato chiamato art brut,
o 'brutalismo'. Si manifesta non
in 'tribù' particolari, ma in esseri non acculturati e in particolari condizioni
psichiche. Non a caso Dubuffet
ha preso coscienza del 'brutalismo' a contatto con i malati di mente, accorgendosi
di quali impressionanti capacità espressive, al di fuori delle abitudini dell'arte
'colta' anche più spontanea e istintiva, fossero dotati. L'Art Brut di Dubuffet
ha estremizzato il Primitivismo e proposto una dimensione nuova all'arte del
Novecento, affascinante ma anche inquietante: bisogna dipingere come veri 'selvaggi',
come se non avessimo mai visto nessun'altra opera d'arte, come se nessuno ci
avesse mai insegnato a dipingere. Bisogna rinunciare alla storia, dimenticare
i musei, i grandi maestri, la riflessione che finisca per condizionare i nostri
istinti. Solo così si può instaurare un legame diretto con il nostro inconscio,
le sue ossessioni, il suo modo di rielaborare la realtà creando un universo
inedito e a suo modo sconvolgente. Ma posto in questi termini, anche il brutalismo
non riuscirebbe a superare la contraddizione che era tipica di tutto il Primitivismo:
si tratta di una forma colta e intellettualizzata, tipica dell'arte d'avanguardia,
che 'gioca' a non esserlo. Gauguin non era un primitivo, era un primitivista
che 'giocava' a fare il polinesiano per ragioni che rientrano in tendenze particolari
della civiltà intellettuale più evoluta. Ciò significa che il Primitivismo si
è in effetti proposto di recuperare l''espressività primordiale' ma di non ripristinare le condizioni storiche, sociali e culturali
che tale espressività hanno determinato. L'uomo moderno dell'Occidente non poteva
più essere un primitivo; poteva solo ispirarsi ad esso, ma niente più.
L'espressività
primordiale era dunque un mito, il ricordo di uno stato dell'umanità che
veniva immaginato 'puro' e veniva mitizzato in contrapposizione alle degenerazioni
della civiltà del progresso. E non a caso chi capisce il Primitivismo non capisce
l'arte realmente primitiva, ritenuta 'inferiore' e incapace di creare prodotti
in grado di competere con la raffinatezza intellettuale dell'arte 'colta'.
Analogamente,
dobbiamo distinguere fra 'brutali' e 'brutalisti': i primi vivono la loro condizione
come naturale, i secondi aspirano ad essa secondo motivazioni di carattere intellettuale.
I primi si esprimono per quello che sono,
i secondi rielaborano le loro espressioni in chiave 'colta'.
In
qualunque modo si valuti Mainetti, sarebbe difficile non considerarlo un 'brutale'
autentico. Mainetti dipinge in modo 'selvaggio', contro i dettati più elementari
della 'buona pittura', contro una tradizione del mestiere artistico che ha raggiunto
esiti mirabolanti. Lo fa senza nessuno spirito di provocazione, anche se si
potrebbe pensare al contrario: Mainetti dipinge con spontaneità e in lui non
c'è spazio per la provocazione o per altri divertissement
intellettualistici. La sua arte ci 'fa paura' perché è allo stesso modo lontana
e vicina a noi: lontana dalle nostre abitudini visive, come se si trattasse
di qualcosa d'antico che abbiamo represso per sempre; vicina perché quel represso
antico è ancora dentro di noi, dentro le nostre anime. Mainetti è diverso da
noi, vive in un altro mondo, ma in fondo la sua diversità ci appartiene almeno
in parte, ce la portiamo dentro, ci accomuna tutti.
Mainetti
è l'altra faccia delle nostre anime, quella più segreta e sconosciuta, quella
più allucinata e onirica.
Ma
siamo poi noi sicuri di essere nel giusto? A vedere le sue opere così inconsapevolmente
poco preoccupate di rispettare le consuetudini, ci si chiede con una punta d'invidia
se Mainetti non sia più libero di noi. E già paventiamo il momento in cui anche
Mainetti verrà 'intellettualizzato', come
è capitato ad altri 'brutali' (ricordate Ligabue?), ripulito da quanto possa
risultare criticato dal buon borghese che sia pratico di gallerie. Già ci spaventa
il momento in cui Mainetti si preoccuperà di piacere, di rispondere a chi s
attende da lui qualcosa. E' davvero qualcosa di inevitabile, l'ennesima applicazione
di una regola del più forte che domina i nostri tempi, o Mainetti avrà la forza
di conservare la sua integrità spirituale, insopportabile e scabrosa?".
Vittorio
Sgarbi